di MICHELE BRICCHI* e FERNANDO FIGONI**

In un precedente nostro intervento (Libertà del 18 novembre 2010, pagina 7) davamo conto dell’approvazione della Legge 122/2010, che reintroduceva la “doppia contribuzione”. La disposizione riguardava i soci di Srl artigianali o commerciali e li obbligava, qualora svolgessero anche attività retribuita in qualità di amministratori, a iscriversi sia alla relativa gestione (artigianale o commerciale), sia alla “gestione separata” (quella per gli amministratori con compenso). Nonostante la Legge 662/1996 già stabilisse che chi esercitava contemporaneamente più attività autonome,ciascuna astrattamente assoggettabile a specifica assicurazione obbligatoria, dovesse essere iscritto solo in quella corrispondente all’attività “prevalente”, l’Inps riconosceva unicità previdenziale non a tutte le attività autonome esercitate,ma solo a quelle “miste” e cioè tra loro “omogenee” (ad es., il panettiere che produce e vende, o l’orologiaio che vende e ripara).Al contrario, per tutte quelle situazioni in cui chiara fosse la distinzione delle attività, sia in termini concettuali che pratici (ad es., l’autotrasportatore che oltre a condurre il mezzo amministra la società), doppia doveva essere pure l’assicurazione pensionistica. Di diverso avviso era la Cassazione, che non riteneva ammissibile una “doppia contribuzione” (da ultimo, v.Cass. 3240/2010). Al fine di limitare il contenzioso, nel 2010 era intervenuto il legislatore, confermando la prassi dell’Inps e sconfessando l’interpretazione della Cassazione. Al termine del nostro articolo ipotizzavamo la possibilità di un contrasto con quanto previsto dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: infatti, la Legge 122/2010 interveniva retroattivamente sulle situazioni dei contribuenti,modificando un orientamento ormai consolidato da parte della giurisprudenza di legittimità. La profezia si è presto avverata e la Corte costituzionale, con la sentenza 15/2012,si è pronunciata proprio sulla legittimità della Legge 122/2010,confermando la correttezza dell’operato del legislatore. Le argomentazioni della Corte per riconoscere la legittimità della Legge 122/2010 si possono riassumere nel fatto che l’irretroattività della legge, pur essendo contemplata nel nostro or- I dinamento,è prevista,a livello costituzionale, soltanto per la legge penale. Il legislatore può, quindi, emanare disposizioni retroattive, laddove giustificate con l’esigenza di tutelare principi di rilievo costituzionale. Nel caso di leggi di “interpretazione autentica”, per essere legittima la previsione deve chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo», in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto». Nel nostro caso, la Corte ha ritenuto invece che la scelta del legislatore non introducesse nella disposizione interpretata elementi “estranei”, ma le assegnasse «un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario». A parere della Corte il legislatore ha reso vincolante un’interpretazione comunque già presente nel tenore letterale della disposizione. Il contrasto in giurisprudenza sull’interpretazione della Legge 662/1996 giustifica ulteriormente il legislatore nel perseguire lo scopo di garantire la certezza del diritto, escludendo l’irragionevolezza dell’intervento. La Corte prosegue affermando che la norma in commento non interferisce sull’esercizio della funzione giudiziaria e sulla parità delle parti nel processo, perché pone una disciplina generale e astratta (sia pure sull’interpretazione di un’altra norma), così collocandosi su un piano diverso da quello dell’applicazione giudiziale che riguarda solo i casi concreti. Il ragionamento si applica anche alla presunta violazione della Cedu, che lascia spazio per interventi retroattivi del legislatore solo se giustificati da «motivi imperativi di interesse generale». In sintesi, secondo la Corte la Legge 122/2010 supera una situazione di incertezza e contribuisce a realizzare principi di interesse generale e di rilievo costituzionale quali la certezza del diritto e l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Se poi il perseguimento di tali risultati – conclude la Corte – ha avuto riflessi anche sul gettito contributivo dell’Inps, ciò costituisce una circostanza indiretta e di mero fatto, e dunque non idonea ad incidere sulla legittimità dell’intervento legislativo.

* responsabile legislazione del lavoro per Cna di Piacenza e collaboratore nell’Università Cattolica alla cattedra di diritto del lavoro

** avvocato e collaboratore nell’Università Cattolica alla cattedra di diritto costituzionale

Libertà 20/02/2012